“Ma perché non te ne sei stata a casa?” mi ha detto mamma, con una smorfia di disappunto. Io sono rimasta in silenzio, perché non mi andava di alimentare la vecchia abitudine di cedere alla rabbia più bieca ogni volta parlo con lei. Le stavo spiegando per l’ennesima volta che ero in ritardo perché la Celere aveva sigillato le strade e non mi avrebbero accolta con un sorriso se fossi andata a bussare sullo scudo antisommossa con una bandiera palestinese sulle spalle per chiedere di passare e andare in stazione.
Sono rimasta in silenzio, sugli spalti, a guardare una pessima partita di baseball, pensando che un’oretta di ritardo per aver tentato di conservare il mio diritto alla libertà di parola non poteva essere poi tanto tragico. Forse era più preoccupante il manganello calato sulle spalle dei poveri malcapitati che sono passati davanti a quel punto con un triste tempismo, col mio stesso passo tranquillo, con la sigarettina appena arrotolata e l’asta di una bandiera appoggiata a un fianco, ma per un qualche particolare incastrarsi di corde vocali nella mia gola non sono riuscita a rendere frase quel pensiero. Mi bruciava abbastanza essere andata via prima, senza arrivare in Arco della Pace, per andare a fare una cosa futile che faceva piacere a me e basta.
Prima, L. mi diceva che in realtà manifestare non è mai servito a niente, che la forza politica di queste cose esiste solo quando c’è un partito che ti acchiappa sotto di lui e rende reale lo sforzo della gente, e mi è dispiaciuto non avere la prontezza oratoria - che mai mi ha contraddistinto - per spiegargli che, a prescindere dall’utilità della cosa, ciò che mi ha portato in Centrale sabato è stata la stessa spinta magnetica dell’orientamento che in mezzo a strade sconosciute sposta i tuoi piedi fin proprio a dove devi andare. E anche se manifestare non si riduce strettamente ad una condizione geografica, almeno ora so riconoscere la lieve vibrazione mentale che sposta il mio corpo quando ho il presentimento di star facendo una cosa giusta, quando l’intuizione mi dice che se qualcuno, per qualsiasi motivo, vuole che la paghi, la pagherò, ma non me ne starò in silenzio ad aver paura, non me ne starò a casa, indifferente. Sono stata a casa fin troppo.
Io, poi, con la fede ho rapporto arido. Mi è sempre dispiaciuto non sapermi districare, ingannare la mia mente e portarla a credere in qualcosa. Non ho un Dio che mi consola, non credo nella Patria che mi protegge come sua figliuola, non credo nella collettività come spinta al cambiamento (posso sperare in quest’ultima, ma non ci credo), non in un’ideologia che mi rapisce la coscienza nella sua totalità. È per questo che ogni volta che vado in chiesa o in moschea sono a disagio, ogni volta che mi ritrovo in mezzo a una manifestazione, un corteo, un presidio, ho un principio di attacco di panico. Io, pagana, sono circondata di fedeli.
Ero abbastanza risoluta ad andarci da sola, questo giro, a manifestare, nonostante il panico che mi paralizzava la schiena. Trovarmi con I. e M. mi è sembrato un insperato incastrarsi di tasselli che succede solo in certe giornate benedette dal destino. Mi ha permesso di prendere grossi respiri, mentre mi levavo la maglietta a maniche lunghe che mi soffocava, cercando di non flashare le tette a nessuno dei presenti. Scherzare sull’agitazione che le folle mi causano, nonostante siano fatte da persone che bene o male la pensano come me, ha avuto un effetto esorcizzante magnifico. Io lo chiamo panico, ma credo abbia un nome diverso, questo sentimento. Forse davvero si tratta di un risveglio della fede. È qualcosa di molto grosso che mi fa venir da piangere. Lo dicevo a I., mezzo ridendo, di non inquietarsi se mi mettevo frignare ad un certo punto. Prima di iniziare a camminare, ci siamo messi dietro a un gruppo di persone che imbracciavano strumenti d’ottone, clarinetti, tamburi e suonavano tutti i vecchi inni della sinistra. Io guardavo la tuba ammaccata che borbottava la sua linea di Bella ciao e mi sembrava di poter percepire ogni goccia del mio sangue che, impetuoso, usciva dagli argini e devastava la campagna circostante. Allora guardavo il lembo di cielo tra i palazzi - sperando di poter tagliare fuori dal campo visivo l’elicottero che continuava a tenerci d’occhio -, per poter sfruttare la stessa gravità che mi fa buttar giù le pastiglie e ricacciare indietro quella frignata potente che mi arrossava continuamente le guance.
Tutta la fede che ho guadagnato in quelle ore, guardando le bandiere al vento, ascoltando il coraggio di giovanissime voci al megafono, gli inni, i mantra, camminando passo passo affianco a bimbi, signore anziane, bellissime ragazze, vestiti d’ogni paese, copricapi, cappelli, sciarpe, striscioni, dita macchiate d’henné o di nicotina, l’ho persa seduta su quegli spalti cadenti, al campo da baseball. Mamma che dice, dovevi stare a casa. La sensazione infingarda di essere di nuovo sola, contro la meschinità del mondo.
Diversi anni fa, durante la mia burrascosa giovinezza, avevo scritto alla mia amica F. che era ingiusto che non fossi là alla Diaz anch’io a prendermi le bastonate (noncurante del fatto che nel 2001 avessi 3 anni). Ciò che non ero riuscita a spiegarle in quel messaggio sconclusionato era che la mia necessità non stava nel farmi menare, ma nell’essere tra quelli che credono abbastanza in qualcosa da scontrarsi con l’inevitabile ingiustizia che la lotta incontra sul suo cammino. Allora pensavo che avere un livido in faccia o la testa spaccata mi avrebbe confermato che ero al posto giusto, che mi avrebbe dato una forza che sarebbe sopravvissuta ai limiti del mio debole corpicino. Lei mi aveva aspramente rimproverato. Quanto è assurdo pensare questo e non che qualcuno avrebbe potuto fare qualcosa, aveva detto.
La verità è che quando ho sentito i forti scoppi dietro di noi, sabato, e mi sono voltata per scrutare tra la marea di teste, mi sembrava già di sentir rimbombare gli scarponi della Celere che avrebbero preso a battere e strisciare qualche ora dopo, già li vedevo serpeggiare tra la gente, strattonare, cacciare per terra qualche ragazzo, spezzare il fluido limpido del corteo e creare un disordine a cui nessuno aveva ancora pensato. Ciò che ho fatto è stato scrivere a tutte le persone che sapevo presenti e chieder loro se erano al sicuro. Se era stato fatto loro del male.
I. e M. sono venuti a sinistra con me, verso la stazione, verso le cinque e mezza. Cinquecento metri più avanti c’era piazzale Baiamonti.
A.
Palestina libera. Sempre.
Grazie per averlo raccontato così bene.