La distanza
Mi ha svegliato, stamattina, una cornacchia appollaiata sull’antenna della casa di fronte. Gracchiava con una cadenza curiosa, che non pareva d’uccello, e mi ha lasciata nel dormiveglia a ponderare che tipo di gioco o di marchingegno o di lamento potesse produrre un suono tale.
L’ho sbirciata - attraverso le persiane discoste - mentre si lisciava le penne. Un movimento metodico, fluido, in contrasto con gli scatti nervosi della testolina. Fece di nuovo quel suo cra insolito, forse guardando proprio me. Colpevole.
A letto, ho rivisto la macchina accostata di sbieco tra l’erba che ho incrociato venerdì tornando dal lavoro. La portiera del guidatore era aperta e sorreggeva una maglietta bianca e sul tettuccio una cornacchia che si lisciava le penne. Non c’era nessuno, ma potevo quasi scorgere l’eco di un uomo con le spalle bruciate dal sole immerso nell’acqua della roggia lì affianco, incurante di insetti, melma, sporcizia, inquinamento. Ho faticato a lasciar andare quell’immagine che è passata così rapida dal finestrino perchè mi ha dato una sensazione molto sottile che non avevo mai provato nella vita reale. Quella macchina ferma così e tutto lo spazio per immaginare la frescura dell’acqua mi ha ricordato tempi in cui non ho mai potuto vivere, dei quali ho solo letto incessantemente. Mi ha ricordato Pavese che parla col cuore stretto delle ragazze che si sdraiavano nel granturco con gli uomini la notte, Steinbeck che racconta di Tom Joad che si asciuga il sudore col berretto e se lo ricaccia in testa sgualcito, che guada il fiume e si nasconde tra i cespugli per sfuggire alla polizia, di Morante che costruisce la campagna romana attraverso gli occhi di Useppe, che si sdraia lungo il Tevere con il suo cagnone pulcioso e lo abbraccia, lo bacia, si arrampica sugli alberi, si sbuccia le ginocchia e dorme tra la polvere fino a notte.
Tutto ciò che per noi è il moderno orrore per le zecche, per il sudiciume, per il prurito della paglia contro la schiena e dei pidocchi tra i capelli, per i vestiti fradici appiccicati alle cosce, l’orrore del disordine, del fastidio, della povertà, per loro altro non era che l’unica maniera di vivere. A me piacerebbe tornare un po’ a quella spensieratezza - termine errato, ma purtroppo non ne ho un altro più corretto tra le dita - del non fermarmi a pensare di non toccare il fiume perchè è inquinato, di non accarezzare il gatto siciliano sbilenco perchè è pieno di parassiti, di non mangiare la frutta dagli alberi perchè sono guastati dai merli, matti, acerbi, pieni di vespe e di formiche. Mi spiacciono le difficoltà del passato, mi spiace per quella gente che considerava avere un cesso con lo scarico un lusso, per i bambini che non sono mai andati a scuola, i vecchi che morivano per “un colpo” sul ciglio della strada, mi spiace per la fame sempre, ovunque, per i piedi pieni di ulcere per aver attraversato il paese camminando. E mi spiace che nella nostra acqua corrente, nei nostri fornelli, nella nostra elettricità, nel nostro terrore dei ragni, nelle nostre scarpe comode da montagna, nei nostri costumini appaiati per il mare, nelle nostre macchine lucenti, nei nostri letti freschi con le lenzuola pulite non riusciamo a trovare un po’ di compassione per chi è ancora costretto a vivere così. Non riusciamo a immaginare che potrebbe essere ancora nostra quella sporcizia. Quel dolore, quella difficoltà.
Diverso tempo fa ho letto Uomini sotto il sole di Ghassan Khanafani. Un libricino di quasi un centinaio di pagine che parla di profughi palestinesi che cercano un passaggio verso il Kuwait. Muoiono di caldo nascosti nella cisterna di un camion sotto il sole iracheno. Il conducente molla i loro cadaveri nel deserto, poco fuori la prima città del Kuwait. È dispiaciuto. Pensava davvero che almeno il più giovane ce l’avrebbe fatta.
Non sono mai riuscita precisamente a dare un nome all’amarezza che quel libro mi ha lasciato. Lo strazio che ho trovato in Ritorno a Haifa, dello stesso autore, è un sentimento molto preciso. Anche in Umm Saad, quando una donna passa sul sentiero e Saad, nascosto nel grano con gli altri miliziani, sa che non è sua madre, ma la chiama mamma lo stesso, e lei gli dice, sì, figlio mio, vi porterò da mangiare finchè i soldati non se ne saranno andati; quella scena si trascina dietro una sensazione nitida, precisa, puntuale, di pienezza. Ma la morte e basta è soltanto amara, vaga e inafferrabile.
In questi giorni di caldo atroce, che passo tra un episodio e l’altro di Star Trek o al campo a guardare il baseball, penso spesso a Uomini sotto il sole e ancora non trovo risposta. Trovo la distanza tra chi muore in una gabbia metaforica (o non) in cerca di libertà, e me che non so che farmene di questa libertà sotto il sole cocente. Trovo la distanza tra chi non ha paura dell’acqua inquinata e del sudore e della sporcizia, e me che soffro il sudore, i capelli appiccicati alla fronte, la mia macchina senza aria condizionata.
Sarà che ho in mente solo la guerra che verrà e so che non sarò tra quelli che sopravviveranno. Non sarò pronta al mondo che non ha compassione per niente, se non per le sue comodità perdute. Non lo sono mai stata.
A.